martedì 16 giugno 2009

Oceano mare


C’è che sono qui, in piedi, a guardare l’Oceano. Quell’Oceano che avrei tanto voluto attraversare, e che non ho avuto compagni né tempo per attraversare. Che non ho avuto il coraggio di attraversare. Quell’Oceano che avevo visto solo una volta, a nord, troppo a nord per essere vero, troppo a nord per potersi chiamare Oceano. Affacciato sul bordo di una scogliera a strapiombo sul mare, che ribolle centomilametri più in basso. 'Aqui, onde a terra se acaba e o mar comeca', scriveva il poeta. Il lembo di terra più occidentale del continente europeo. La fine dell’europa, insomma. La fine del mondo. E c’è che poi mi siedo, con le gambe a penzoloni nel vuoto, e da quassù provo a guardare al di là del mare. Che forse se strizzo gli occhi lo vedo, sì forse lo vedo lo skyline di Manhattan laggiù in fondo, lontano all’orizzonte, dritto davanti a me. Ma certo, prima di attraversare un oceano, bisogna conoscerlo, bisogna vederlo almeno una volta, capirlo. Perché è diverso, l’Oceano. E’ insieme spettacolo, timore e rispetto. C’è l’immensità, prima di tutto. Che evoca i marinai, gli esploratori e i galeoni carichi di dobloni e di scoperte, di schiavi e di spezie, che con i loro viaggi hanno allargato i confini del mondo. Ci sono queste onde fredde e lunghissime, che iniziano a rompersi lontano dalla costa e che sembrano formarsi apposta perché qualcuno le cavalchi. E poi c’è il rumore, sì, perché anche il rumore è diverso, dell’Oceano. Ma più di tutto c’è questo vento selvaggio, che mi porta via ad uno ad uno, come granelli di sabbia, tutti i cattivi pensieri.


E poi c’è che sono qui su una sdraio, al sole, di nuovo a guardare l’Oceano. Sulla terrazza di un baruccio in legno gialloverdeblu, in mezzo a una magnifica spiaggia di sassi bianchi famosa per il surf. Deserta. E c’è che questo bar è tenuto da due ragazze, che avendo pochi clienti si siedono per terrra, a piedi nudi, e iniziano a suonare e a cantare vecchie canzoni portoghesi e brasiliane, indifferenti al tempo che passa. Saudade. Se ne fregano di tutto, loro. Stanno qui, su una delle spiagge più belle del Portogallo, a suonare la chitarra guardando l’Oceano. Con il bar guadagnano quello che basta, non hanno grosse pretese, si accontentano di quello che hanno. Magari ogni tanto si innamorano dei surfisti australiani che vengono apposta dalla Gold Coast per cavalcare queste onde. I surfisti. Arrivano con la tavola sottobraccio e si fermano al limite della spiaggia. Immobili, a guardare il mare. Attenti, con lo sguardo seguono le onde, la direzione del vento, la posizione degli scogli. Studiano l’Oceano. E poi, dopo qualche minuto, decidono. Alcuni si voltano e tornano indietro, fino alla strada, fino alla macchina. Non hanno sentito il feeling che cercavano con quel luogo. Gli altri, beh, gli altri si tolgono la maglietta e si buttano. Ed allora, ragazzi, è uno spettacolo. E c’è che mentre sono lì al sole su quella veranda, mentre ascolto le ragazze cantare e guardo le evoluzioni dei surfisti, mi viene da pensare alla vita di quelle ragazze e a quella dei surfisti, e poi alla mia, di vita. A quello che sarà. Penso a lungo. E ad un tratto, mi viene fortissimo un pensiero. Una rivelazione, un’illuminazione improvvisa, stordente ma chiarissima, che mi lascia senza fiato come mai era successo fino ad ora. Il pensiero di avere sbagliato tutto nella vita. L’idea che forse non sono tutte sciocchezze e luoghi comuni e che forse siamo noi, e non loro, a non avere capito nulla. Chi lo dice che la felicità sia nell’avere un lavoro importante, soldi e successo in tutti i campi della vita? Chi lo dice che la felicità non sia fatta di cose semplicissime come il sole, il mare e una chitarra? O come una tavola da surf?
Avevo fame, ma per mangiare avrei dovuto alzarmi e soprattutto interrompere le ragazze che suonavano. No, non potevo rovinare quel momento, rompere quella specie di incantesimo. E allora c’è che sono rimasto lì, immobile, per tutto il pomeriggio, nonostante avessi fame, nonostante fosse tardi, nonostante non avessi visitato nulla nei dintorni. Nonostante tutto. E confesso che per un attimo, un solo istante brevissimo o forse infinito, io ci ho pensato. Lucidamente, in modo serissimo, ci ho pensato. Di non tornare a Lagos quella sera, né a Lisbona il giorno dopo, nè a Milano quello seguente. Di non tornare proprio. E di fermarmi lì al sole, in quella spiaggia, su quella terrazza di legno gialloverdeblu ad ascoltare musica portoghese e a guardare l’Oceano. Per sempre.

sabato 22 novembre 2008

Foglie d'autunno (musica: Foglie di Beslan - G. Allevi)

Un vento come solo sa essere il vento qui dalle mie parti. Discende dalle montagne e viene incanalato nella strettoia della Valle, dove si riversa con tutta la sua forza e velocità. Un vento elettrico che fischia, ulula, si infiltra soffiando in ogni fessura. Che fa tremare i vetri e scardina le persiane. E porta via con sé, lontano, tutto quello che incontra. Tegole, tettoie, rami, immondizia. E foglie. Le foglie d’autunno. Un vento da stare chiusi in casa. E intanto, Morricone che suona.

Un vento che di giorno non ti fa ragionare. Proprio nel giorno in cui uno dei miei miti venne assassinato. Anzi, no. Nel giorno in cui un uomo venne assassinato, diventando uno dei miei miti. Nel giorno in cui ho paura per un altro uomo che me lo ricorda molto da vicino. E allora leggere, e poi leggere ancora. Leggere tra le righe. Le righe di un biglietto a/r per Lione. O magari per Rio de Janeiro. Sola andata. E intanto, vecchia musica dal giradischi.

Un vento che di notte non ti fa dormire, nonostante il profumo delle lenzuola pulite. E quindi scrivere, scrivere, e poi scrivere ancora. Scrivere, per non pensare. Spostare la notte più in là, e dopo cancellare tutto. E intanto, la musica in cuffia. E lui che disse: «Non voglio più sentirti parlare. Voglio sentire parlare di te». Proprio come le foglie d’autunno. Già, le foglie d’autunno. E ancora, musica da film.

Foglie d’autunno nel vento. Foglie colorate che turbinano libere e si ammassano lungo la cancellata. Oppure una ad una, prese in ostaggio, prigioniere del vento che ne fa ciò che vuole. Tra una caramella e una bomba a mano. Ma loro, le foglie d’autunno, lo sanno. E si lasciano prendere docilmente per mano e trasportare verso il loro destino. Innocenti. Proprio come bambini sorridenti e un po’ impauriti, il primo giorno di scuola.

mercoledì 5 novembre 2008

In ogni caso, sono molto più avanti di noi.

«American people have spoken, and they have spoken clearly. A little while ago I had the HONOUR of calling Sen. Barack Obama to congratulate him on being elected the next President of the country the we both love».
Sen. John McCain.

Qui da noi in genere chi perde dice che non è possibile, che è colpa dei brogli e che bisogna ricontare le schede.

martedì 21 ottobre 2008

Cioè, dico, guardate che posto!

Oggi io voglio andare qui. Ecco.

lunedì 13 ottobre 2008

Memories from Vietnam. (musica: The end - The Doors)

Gli elicotteri militari volavano bassi, avanti e indietro, senza sosta. E dietro, la giungla in fiamme. Un fumo nero da soffocare. Napalm, figliolo. Non c’è nient’altro al mondo che odora così. E anche questa volta li abbiamo respinti, sai? Ma quanto durerà? Hai avuto fegato, figliolo. Se tu non fossi andato in avanscoperta l’intero plotone sarebbe caduto nell’imboscata. Maledetti musi gialli. E maledetta questa giungla umida fatta di palme, palme e ancora palme, che ci costringe ad avanzare lenti a colpi di machete e a difenderci dalle imboscate di Charlie. Presto morirai, figliolo, qualche minuto al massimo. Ti hanno cacciato un intero caricatore nello stomaco, quei bastardi. Ma ti invidio. Perché sei un duro, adesso sei veramente un duro. Forse. Anche se non è servito a niente. Perché sai, a breve saremo costretti ad andarcene da qui. Abbiamo perso. E lo sapevamo fin dall’inizio. Il mondo ci vedrà in fuga, magari ammassati sulla scaletta che porta sul tetto della nostra ambasciata a Saigon, dove sarà pronto l’ultimo elicottero con le pale già in movimento. Conigli impauriti. Così, ci ricorderanno da queste parti. Perdenti. Oltre che invasori, naturalmente. E io ho paura, figliolo. Non di morire in questa fottutissima guerra, ma di sopravvivere dopo tutto quello che ho visto. Dopo i villaggi che ho incendiato, dopo le bambine dagli occhi a mandorla violentate dai nostri e poi bruciate vive, dopo aver visto te e molti altri dei miei uomini morire con le budella di fuori. Dopo le torture inferte e subite, dopo le marce massacranti durante la notte, dopo tutta la puzza chimica che ho respirato. Sto impazzendo. Ascoltami, figliolo. Ti prego. E bevi un sorso d’acqua dalla mia borraccia, cazzo, aspetta ancora un attimo prima di crepare. Ho paura di tornare a casa, perché questa guerra ci è entrata dentro, ci ha cambiati. Perché lo so che non riuscirò più a vivere senza i miei uomini. Perché lo so che non avrò mai più il coraggio di guardare i miei figli negli occhi. E lo so, già lo so che ogni notte mi sveglierò di soprassalto, con la testa martellata dal flap flap degli elicotteri e negli occhi il movimento ipnotico delle loro pale. E seduto nel buio della mia stanza, ci metterò un po’ a capire che invece si tratta soltanto dello stupido ventilatore da parete appeso sopra alla mia testa. Ora non mi senti più, figliolo, ma sappi che ti invidio. E che Dio ci benedica.

Gli elicotteri militari volavano bassi, avanti e indietro, senza sosta. E dietro, la giungla in fiamme. Un fumo nero da soffocare. Si chiama Vietnam, figliolo. Alla fine il Vietnam è tutto qui.

lunedì 6 ottobre 2008

Torino: altro giro, altra corsa.

Prima notte. Pur mancando il mio room-mate, non ero solo. Al di là del muro, infatti, un piccolo esserino mi teneva a suo modo compagnia. E la scena che si presentava era molto molto simile a questa.

sabato 27 settembre 2008

Chapeau